Premessa: un’antropologia religiosa della scrittura e dell’arte; 1. Il “dualismo ottico” di Mani; 2. Scrivere e dipingere come media di proselitismo; 3. Committenza, mecenatismo e scribi in Asia Centrale; 4. La pagina ornata e l’anima illuminata: l’ascesi dello stilo; 5. Una carta divina? Il linguaggio della polemisica contro il libro manicheo; 6 Testualità figurative e drammaturgie di conversione; Conclusioni. La Bellezza che redime il mondo: per un’estetica della salvezza; Apparati e riferimenti bibliografici.
Il profeta Mani (III secolo d.C.) nacque nella Mesopotamia arsacide e predicò nell’impero persiano dei Sassanidi, godendo del favore iniziale del re dei re Shabuhr I, per poi cadere in disgrazia e subire la prigionia e il martirio sotto il regno di Wahram I. La religione che da lui prese il nome si distinse, nel panorama spirituale della tatda antichità, per il grande valore attribuito a prodotti culturali come il libro, scritto e illustrato, da lui promosso a medium fondamentale di missione e di conversione. Mani stesso fu un fecondo poligrafo e disegnatore di tavole che illustrarono la sua dottrina cosmologica, e il dramma impressionistico dello scontro tra le potenze della Luce e della Materia. Visionario e taumaturgo, artista e scrittore, predicatore e musico. La sua abilità nel tracciare ampi cerchi perfetti, un Giotto ante-litteram, lo rese famoso per questa sua maestria di “pittore della luce” – così venne nominato da un erudito musulmano – e profeta ispirato, al contempo: giunto per cantare ai popoli, e per dipingere, la vicenda mitica e soterica della caduta e del riscatto della Anima-Luce, nei vincoli del mondo e nell’animo dell’uomo, prima obnubilato e poi redento dalla buona speranza della gnosi illuminatrice.